LA BIRRA NEL MONDO
Riuscire a descrivere in poche righe l'universo birrario è impresa quasi disperata, anche perché per forza di cose è stato necessario operare una scelta sui Paesi da descrivere. E ogni scelta fatalmente scontenta qualcuno.
L'Australia, legata com'era alla Gran Bretagna, ha fatto della birra la bevanda nazionale e quasi una religione, dato che da sempre si trova nei primi dieci, e talvolta anche nei primi cinque Paesi consumatori di birra. Il suo top è stato toccato nel 1975 con 136 litri pro capite, mentre l'anno passato i consumi si sono attestati sui 111 litri. Una caratteristica dell'Australia è legata alla capacità dei bicchieri da birra e al loro nome, che varia da Stato a Stato: ad esempio nel Queensland il Pot contiene 10 once (circa 3 decilitri), mentre nell'Australia Occidentale ha tre formati: 10, 15 e 20 once. La tipologia che va di più è lalager, una birra di bassa fermentazione non molto luppolata, dal gusto abbastanza neutro. Queste birre hanno soppiantato una lunga tradizione di ale e stout, che fino all'inizio del secolo era largamente rappresentata. Il marchio più noto in Italia è Foster's, della Carlton & United Breweries di Melbourne.
Anche in Austria i prodotti a bassa fermentazione sono i più apprezzati, sebbene la tradizione birraria austriaca risalga al XIV secolo, e quindi a birre di alta fermentazione. Il consumo birrario pro capite austriaco è in crescita lenta ma costante: l'anno passato si è toccato il tetto dei 121 litri.
Un paradiso brassicolo come il Belgio, il cui consumo a cranio raggiunge la considerevole quota di 120 litri nonché patria di re Gambrinus, non solo può andar fiero della quantità consumata dai suoi abitanti, ma soprattutto dalla qualità e dalla varietà dei suoi prodotti. Non bisogna dimenticare i suoi tipici locali, che vanno dal café all'estaminet e sono tutti caratterizzati dalla notevole scelta di birre. Sono poco meno di un centinaio i punti di produzione belgi e tra di loro vi è una notevole differenza, poiché se da una parte vi sono i colossi come Interbrew (sinergia produttiva e di marketing di Artois e Piedboeuf-Jupiler), e Alken-Maes (frutto della fusione fra Maes e Kronenbourg belga) che producono milioni e milioni di ettolitri, dall'altra vi sono ancora le birrerie artigianali che vantano poche decine di migliaia di ettolitri e che corrono il rischio di venire inglobate nei grandi gruppi da un giorno all'altro. Si sta formando però una terza fascia di produttori, quella dei figli o dei nipoti dei vecchi birrai che hanno studiato management e che quindi, pur non perdendo le caratteristiche della birreria artigianale, aumentano gradatamente la produzione, attuano migliorie tecnologiche e studiano nuove strategie di marketing per mostrarsi competitivi in alcune fette di mercato. L'importante è non perdere il gusto delle secolari tradizioni birrarie.
In Canada il clima è generalmente freddo, quindi è tutt'altro che innaturale bere qualcosa di alcolico per tirarsi su. È quanto fecero i coloni europei, che nel 1668 impiantarono la prima birreria canadese che promuoveva l'impiego delle risorse cerealicole locali e la temperanza, dato il tenore alcolico piuttosto contenuto delle birre. La temperanza è poi sfociata nel proibizionismo, che almeno sulla carta non è mai stato del tutto abrogato, per cui esistono ancora oggi leggi assurde, per cui c'è gente che può acquistare birra solo per corrispondenza, oppure zone in cui di domenica né birra né altri alcolici sono disponibili, oppure ancora altri locali ai quali hanno accesso soltanto gli uomini. Le birre canadesi hanno la fama di essere più forti di quelle statunitensi, il che è vero, ma in assoluto non si tratta di prodotti molto alcolici, poiché la legge vieta alle birre di avere un contenuto alcolico superiore al 5,5 per cento. Sebbene siano le lager le più amate dai canadesi, vi sono discrete porter, stout e ale. Il marchio canadese leader è Labatt, presente anche in Italia. Il consumo pro capite l'anno scorso è stato di 83 litri.
Si dice che il luppolo della Saaz sia il migliore, si dice che la birra a bassa fermentazione sia nata a Plzen, è sicuro che esistono pochi Paesi più birrari della Cecoslovacchia. Nel 1971 e nel 1972 è stata addirittura sul tetto del mondo per il consumo pro capite, rispettivamente con 148,8 e 147,7 litri, ma anche l'anno passato si è difesa molto bene con i suoi 133 litri a cranio. Una cosa è sicura: i luppolatori boemi ci sanno fare da molte generazione, poiché riescono a conferire un aroma molto particolare alla birra senza renderla troppo amaricante. Una cosa non dovrà stupirvi delle birre ceke: che i prodotti alla spina talvolta si trovino...in bottiglia. In realtà in Cecoslovacchia birra alla spina (che può essere chiara e scura) indica anche una birra a bassa gradazione (circa 10° saccarometrici), con notevoli differenze di gusto da marca a marca. Per il mercato italiano però sono decisamente più importanti le lager, che si identificano con due classici, Pilsner Urquell e Budvar, ottimi sia in bottiglia sia spillata. Hanno un caratteristico colore dorato dai vividi riflessi e dalla schiuma assai consistente, di gradazione compresa fra gli 11 e i 12 gradi.
Un paese birrario che in Italia, grazie al suo export, ha trovato l'Eldorado è la Danimarca, che viaggia con il considerevole consumo di 126 litri a testa, nonostante il ferreo divieto governativo di fare pubblicità agli alcolici alla radio o alla televisione e alle restrizioni imposte sulla carta stampata. Nomi come Tuborg, Carlsberg, Ceres e Giraf sono ben noti ai consumatori di birra nostrani che però conoscono prevalentemente le birre chiare danesi, sia leggere sia più alcoliche. In realtà vi sono anche numerose tipologie birrarie dal colore più scuro, come le porter, le stout e le münchner, non ancora molto conosciute dal pubblico italiano ma sicuramente di grande qualità. Il nome del lievito che presiede ai processi di bassa fermentazione della birra (Saccharomyces carlsbergensis) è stato un doveroso omaggio della scienza a Jacob Carl Jacobsen, fondatore della birreria e del museo Carlsberg, nonché grande studioso e ricercatore della biochimica dei lieviti.
Nonostante la Francia sia la patria del vino, vi si consuma anche una notevole quantità di birra, 41 litri pro capite. Va detto che questo Paese anticamente si chiamava Gallia, patria dei rudi guerrieri celti e dei misteriosi druidi, tutti grandi tracannatori di birra. Sono due le regioni francesi che rinnovano i fasti brassicoli gallici, l'Alsazia, detta la Baviera francese, e il Nord, Parigi inclusa, territorio assai vicino ai birromani belgi. In Alsazia predominano le birre a bassa fermentazione d'ispirazione tedesca, mentre nel Nord sono i prodotti ad alta fermentazione ad andare per la maggiore. Molto interessanti sono le Bières de Garde, birre di "alta tradizione", che vengono tuttora brassate da piccole aziende del Nord, in genere imbottigliate in contenitori da vino con tappo di sughero tipo Champagne. Sono lievemente e piacevolmente acidule e prodotte ovviamente con il sistema dell'alta fermentazione. In Italia il marchio più noto è Kronenbourg, che fa parte del gruppo multinazionale BSN, che è anche prodotta su licenza e distribuita da Peroni.
È stato fatto un test birrario a migliaia di italiani e una delle domande era: «dov'è nata la birra?». Ebbene, il 90 per cento degli intervistati ha affermato senza esitazione che la patria della birra è la Germania. Il che è falso ma dimostra che gran parte degli italiani identifica la tradizione birraria con la Germania. In effetti questo Paese, in testa alle graduatorie mondiali dei consumi con 142 litri pro capite e con un export consolidato da decenni nel nostro paese, gode di un'immagine brassicola pari a nessun altro e le graduatorie delle importazioni italiane lo confermano. Le tradizioni brassicole tedesche sono le più dure a morire rispetto agli altri Paesi in quanto la Germania rappresenta l'unica eccezione al concentramento delle birrerie, visto che ve ne sono ancora più di un migliaio di cui oltre 600 soltanto in Baviera. Questo fenomeno di polverizzazione produttiva ha fatto sì che molte specialità regionali o addirittura zonali rimanessero in produzione, ma d'altra parte ha confinato all'interno di mercati locali queste piccole aziende, gestite per lo più famigliarmente dato l'alto costo assunto dalla manodopera. Quasi un centinaio le aziende tedesche presenti in Italia, alcune delle quali da molti decenni.
Forse non tutti sanno che il Giappone è uno dei più importanti produttori del mondo, anche se la media del consumi pro capite è relativamente bassa (44 litri). Il crescente numero della popolazione e il notevole export nipponico, indirizzato prevalentemente verso gli Stati Uniti, ha fatto sì che attualmente i prodotti giapponesi siano quantitativamente i quarti nel mondo e il gruppo Kirin, il maggiore del Sol Levante, occupa la stessa posizione nel ranking delle aziende birrarie.
L'ultimo baluardo delle tradizionali birre ad alta fermentazione è stata fino a pochi anni fa la Gran Bretagna, che recentemente ha innestato il turbo ai consumi di lager, mentre quelli pro capite sono in leggero declino, attestati su 105 litri . Ciò che caratterizza il mondo birrario britannico oltre alle sue innumerevoli qualità di ale, stout e lager è comunque il luogo deputato al loro consumo, il pub. Questa parola, sintesi di "public house", è una vera seconda casa per tutti i britannici e se un tempo era privilegio quasi esclusivamente maschile, oggi è tutt'altro che infrequente vedere donne sole o in compagnia di amiche che frequentano questi locali. "Il pub - è stato scritto - non è un pubblico esercizio, è un modo di vivere" e noi condividiamo in pieno questa definizione, poiché è davanti a buone pinte di birra che i britannici riescono a socializzare, a discutere, a confrontare le loro opinioni e talvolta, previo un buon consiglio di un amico, anche a risolvere i loro problemi personali. È per questo motivo che Andy Capp frequenta il pub da sempre. Il pub è stato recentemente anche motivo di aspra contesa tra aziende, poiché é stata emanata una legge in cui viene specificato che le birrerie non possono avere più di 2000 tied-houses, ossia locali dove vendere i loro prodotti in esclusiva, inoltre la legge antitrust è scattata nei confronti dell'australiana Carlton, che dopo aver acquistato la Foster's si apprestava a fare la medesima operazione con Scottish & Newcastle. Il tentativo, grazie all'intervento del governo britannico, è fallito. Le aziende birrarie, poco più di un centinaio, hanno però incentrato quasi tutta la produzione nei "sei grandi": Allied Breweries, Bass, Courage, Scottish & Newcastle, Grand Met e Whitbread.
Parlando di Irlanda birraria viene subito alla mente un nome, Guinness, che copre da sola gran parte del fabbisogno birrario pro capite (85 litri) degli isolani. Si tratta di una scurissima stout, discendente delle londinesi porter, assai amara e corposa, dotata di una crema dal gusto di caffè al posto della schiuma, non pastorizzata e per lo più spillata dai fusti. A questo proposito va detto che in Irlanda c'è il più alto consumo di birra alla spina del mondo, vale a dire oltre 1'80% della produzione. Un'ultima osservazione riguarda i pub, alcuni dei quali sono singing, ossia vi si cantano e si suonano in allegria motivi di musica celtica alternati a jazz e rock, anche alle ore più impensate.
Una nazione che sta cambiando lentamente ma costantemente il suo modo di bere la birra è l'Olanda. Da sempre regno incontrastato delle leggere lager nazionali, non molto luppolate e dal gusto abbastanza neutro, bevute nei bruin cafés di Amsterdam e seguite da un bicchierino di jenever (il gin locale), negli ultimi tempi la situazione è cambiata e il consumatore ha dato più spazio alle specialità. La vicinanza con il Belgio, le esigenze delle nuove generazioni e del mercato in generale hanno fatto sì che anche i colossi birrari olandesi si siano messi a produrre tipologie birrarie assai diverse da quelle usuali, per cui gli attuali 90 litri pro capite consumati dai cittadini dei Paesi Bassi si stanno frammentando in piccole nicchie di mercato che privilegiano le birre rosse o scure, quelle rifermentate in bottiglie o quelle doppio malto. Sul mercato italiano Heineken è il marchio olandese leader, tanto più che Dreher è parte integrante del gruppo.
La Spagna è uno di quei miracoli birrari che l'Italia brassicola avrebbe dovuto imitare tanto è clamorosa l'avanzata dei consumi nel paese iberico negli ultimi quarant'anni. Basti pensare che all'inizio degli anni Cinquanta Italia e Spagna avevano lo stesso consumo pro capite di birra e ora nella terra delle corride (72 litri) si beve birra tre volte tanto rispetto al Bel Paese. Se si pensa che la Spagna è un Paese mediterraneo e non possiede sacche birrarie come l'Alsazia e il Nord in Francia oppure la Sardegna in Italia è spontaneo affermare che in questo Paese la birra ha fatto passi da gigante in continuazione; prova ne sia che è leader dei consumi brassicoli nel bacino del Mediterrane o. Forse la chiave di volta del successo della birra dai Pirenei all'Andalusia va ricercata nel fatto che è diventata la bevanda adatta ad ogni circostanza, cioè è sfuggita sia al fattore stagionale, sia al fattore occasionale, all'abitudine insomma, che sovente determinano una stagnazione dei consumi. Una cerveza funge da aperitivo, accompagna i cibi, disseta sulla spiaggia o durante una pausa lavorativa, viene sorseggiata davanti al televisore o mentre si gioca a carte, è leggiadra compagna di un panino con formaggio e salame di campagna. È la classica bibita ovunque e comunque che va a braccetto con un certo modo di vivere.
Ed eccoci agli Stati Uniti, numero uno della produzione mondiale, con 91 litri pro capite per una popolazione che supera i duecento milioni di anime. In America la birra è assai gasata, meno alcolica che da noi e la stessa birra è vissuta più come soft drink che come bevanda alcolica, dato anche l'alto consumo in lattine del luppolato prodotto. Gusto quindi assai neutro di quasi tutti i marchi lanciati sul mercato dai colossi birrari quindi di facile approccio da parte del consumatore. Appagano notevolmente la sete. Negli Stati Uniti però esistono anche delle birrerie artigianali che negli ultimi anni hanno sviluppato un interessante trend, ossia il revival dei prodotti ad alta fermentazione che stanno ottenendo un notevole successo. In Italia esistono già alcuni locali tipici modello Far West, che però non sono necessariamente caratterizzanti per la birra.
La birra in Svizzera ha una matrice ecclesiastica e celtica, infatti è merito del monaco irlandese Gallo, poi santificato, la sua importazione in territorio elvetico nell'ormai lontano VII secolo. Nonostante questo la Svizzera è stata caratterizzata per numerosi secoli da una cultura eminentemente vitivinicola. A metà del secolo scorso però una terribile epidemia di fillossera ha distrutto gran parte delle viti, dando così via libera a un maggior consumo birrario. Questo episodio doveva rivelarsi decisivo per un cambio di abitudini alimentari, che si sono accentuate con il tempo. Un piccolo esempio in cifre: nel trentennio 1850-1880 le fabbriche di birra svizzere passano da 150 a 520 e la produzione aumenta di un quasi incredibile 666%, passando da 120.000 ettolitri a un milione. Negli anni Ottanta del secolo scorso il consumo elvetico pro capite di vino era praticamente doppio di quello birrario (70 litri a 36), mentre nel decennio appena trascorso i consumi birrari hanno avuto la meglio su quelli vinicoli (70 litri a 49). Il tipo di birra che in genere gli elvetici bevono è un prodotto a bassa fermentazione e di colore chiaro. Le birre scure infatti rappresentano meno dell'1 per cento del totale. E dire che quarant'anni fa le maltate scure avevano un'eccellente 17 per cento sul consumo totale. Parlando di birre chiare va notato che negli ultimi dieci anni le speciali, più alcoliche e in genere di maggiore qualità, hanno aumentato notevolmente la loro presenza sul mercato, passando dal 18 al 25 per cento.